Un tatuaggio quasi del tutto rimosso è costato la carriera ad una candidata poliziotta. Sarebbe tutta colpa delle calze.
Un cuore con una coroncina, questa l’immagine tatuata sulla pelle della donna e che le è costata la carriera in Polizia. Tra le altre cose, la donna aveva provveduto a rimuovere il tattoo a colpi di laser, proprio subito dopo aver superato le preselezioni. Purtroppo, per l’aspirante poliziotta, questo non è bastato ed è stata esclusa dal corpo militare.
Chiaramente, la giovane ha presentato ricorso e, in un primo momento, il Tar le dà ragione. Il provvedimento viene sospeso e la giovane donna viene riammessa alla scuola di Polizia dove conclude l’addestramento. Tuttavia, dopo solo qualche mese il Consiglio di Stato, IV sezione, rovescia la decisione del Tar, giudicandola inidonea. E a nulla è valso il ricorso della giovane aspirante commissaria, recentemente giudicato inammissibile.
Una decisione che fa discutere e, da molti giudicata come ingiusta e discriminatoria nei confronti delle donne, considerato che sono penalizzate dalla gonna che copre meno dei pantaloni indossati dagli uomini
Secondo l’aspirante poliziotta, le donne sono penalizzate rispetto agli uomini, dall’uniforme ordinaria. Infatti, mentre gli uomini indossano i pantaloni, l’uniforme ordinaria delle donne prevede la gonna con calze e décolleté, che ovviamente risulta meno coprente per eventuali disegni sulla pelle.
Come molti sanno, il decreto del ministero prevede che “i tatuaggi presenti sul corpo non coperti dalla divisa fanno scattare l’esclusione in automatico”. Discorso diverso per i tattoo coperti. In questo caso, infatti, il candidato verrebbe giudicato non idoneo solo se “per sede o per natura” siano deturpanti o per contenuto “indice di personalità abnorme”.
Ecco quanto si legge nella sentenza della Suprema Corte “Il collegio delle Sezioni unite è consapevole del fatto che le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali, in particolare della libertà di espressione, e che, proprio per questo, il giudice deve evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi non copre in modo identico ai pantaloni. Insomma, sebbene risulti evidente che la Suprema Corte mostri comprensione per il problema sollevato, il ricorso resta inammissibile. Il giudizio del Tar, in assenza di difetti di giurisdizione, superata o negata, è insindacabile.